Biografia

Nato a Milano due mesi prima dell’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, Luigi Ballerini ricorda malvolentieri i primi cinque anni della propria esistenza, e soprattutto le notti, passate nello scantinato di Via Neera 10, in fondo a Porta Ticinese, che servivano da rifugio antiaereo. Sono, egli sostiene, anni non vissuti, e vanno dunque sottratti agli ottanta che ha ormai raggiunto.

Esploratore delle strade della periferia milanese

Accanito esploratore delle strade della periferia milanese e dell’adiacente retroscena agricolo, crebbe in finta letizia e in malcelate angustie. Figlio, nipote e cugino di sarti, ammette di aver sempre goduto di una certa eleganza nel vestire. Per contro il superaffollamento dell’abitazione e la conseguente mancanza di privacy, lo hanno reso nemico del sonno. Come per molti suoi coetanei nati e cresciuti nell’estrema periferia di una grande città, la vita di strada gli si è rivelata assai più attraente di quella domestica. Le precarie condizioni economiche della famiglia lo costringono ad abbandonare presto gli studi, per cui, dopo le scuole medie, diventa uno dei tanti “goliardi delle serali” come li avrebbe chiamati in una sua poesia giovanile l’amatissimo Elio Pagliarani.

Luigi Ballerini, poeta di Milano

Il legame con Milano e soprattutto con il suo quartiere resta fortissimo, tanto è vero che dopo aver vissuto gran parte della sua vita adulta negli Stati Uniti, dove ha insegnato letteratura italiana moderna e contemporanea in varie università (City University of New York, New York University, University of California Los Angeles, Yale), dal 2004 torna a vivere a Milano, non lontano dai Navigli, per metà dell’anno.

Cefalonia, dall’elaborazione del lutto per il padre al poemetto

Specializzato in escamotages psicologici ha cercato per lunghi anni di rintuzzare gli effetti di un’assenza fondamentale: quella del padre, caduto in combattimento contro i tedeschi – o forse da loro fucilato – sull’isola di Cefalonia nel settembre del 1943. Tenuta sotto controllo con mezzi di fortuna, quali incomprensibili scatti d’ira e lunghi periodi di umor nero, il trauma è finalmente esploso nel 2005 (alla buon’ora: egli era ormai sessantacinquenne!), grazie alla scrittura del poemetto Cefalonia in cui, riducendo a zero le razionalizzazioni erogate con puntuale sicumera dagli ipnotizzatori delle coscienze – incapaci di cogliere il senso storico, testimoniale, rigenerativo che si annida nella materialità degli eventi –, autorizza le parole del dramma ad urtarsi, ammaliarsi vicendevolmente, attirarsi, strofinarsi le une contro le altre, stimolate da una forte emozione e da una non spuria sete di verità. Alla pseudo-catarsi in cui inciampa inevitabilmente la pericolosa superficialità dei tutori di regole attrappite dall’abitudine, la sua scrittura oppone la modesta proposta di un discorso poetico in cui nominare e riferire sono vissuti non come certificazioni simboliche della realtà, ma come occasioni, come beanze, come tuffi lunghi e ragionati (e sregolati) nel mare dell’inconscio forse, ma non dell’incoscienza.

Il ruolo del lavoro umano nella società contemporanea

Dopo Cefalonia la sua vita di poeta si è alquanto complicata. Da molti anni è alla ricerca di una illuminazione che gli consenta di metter per iscritto un oratorio in cui voci di diversa estrazione (antiche, moderne e contemporanee) s’interroghino sul ruolo del lavoro umano nella società contemporanea, questo parendogli il tema più urgente insieme a quello, intimamente correlato, della distribuzione dei beni e della conoscenza.

Saggista, traduttore, curatore e editore

In tutti questi anni di febbrile attesa, egli ha continuato la sua opera di traduttore, di saggista, di curatore di eventi culturali (come gl’incontri biennali di Latte e Linguaggio) e di collane editoriali (come la Lorenzo da Ponte Italian Library della University of Toronto Press).
Molti dei suoi compagni di viaggio sono passati, come diceva l’amico pittore Angelo Savelli, alla quarta dimensione. Ne sente profondamente la mancanza e s’ingegna, senza dimenticare i vivi, di tenerne in vita la memoria con saggi, dediche e interventi. Per rimettersi continuamente in discussione non trova stimolo migliore della compagnia di un drappello di giovani cui, in passato, ha insegnato qualche rudimento dell’arte della lettura.
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