Cefalonia

Milano, Momdadori 2005
Venezia, Marsilio 2013
Madrid, Vaso Roto, 2013
New York, Rail Edition (tavole di Robert Motherqwell) 2016

Ettore B

sulla mia morte non ci sono dubbi. Ne rimangono invece
intorno ai modi: caduto, secondo la vulgata, su di un’arma
quasi bianca, e dopo giorni di attacchi rinviati, insidïosa
corre anche voce che sia stato messo al muro. Non poteva,
l’incertezza, non turbare chi del mio silenzio s’era fatto
una specie di ragione, sia pure a mezzo di sarcasmi e scatti
di non trattenibile violenza (come assente ho suscitato attese
di esperienza che sarei stato fiero di evitare). Sforzandomi
di contare come vivo, ho comunque istigato non illeciti
e non sospetti annusamenti di verità: che una mala fede,
per dirne una, si osservi meglio se un ribrezzo intermittente
soggiace alle lusinghe di un dio massaggiatore, o quando
non gracchia al modo delle rane, né urla s’ode a destra uno
squillo di tromba cui risponde uno squillo, a sinistra. Sapersi
maschere sdipana sintomi di parossismo, di chiaroveggenza
(esserci, starci, cantare per farsela passare, per capire chi ha
chiesto e chi ha pagato impunemente il conto, la zavorra).
Vivi o morti, è da vivi che si tenta di tornare sui passi del
proprio delitto, che ci si torna, untuosi, fingendosi morti

[…]

Ettore B

i più non rubano direttamente pur essendo inclini al profitto, alla non
trascurabile analogia di sesso e cucina (battere con cura, umettare, con
una briciola di zucchero togliere eventuali acidità, cuocere tra due
fuochi, servire o caldo o freddo); i più disprezzano senza inviperire
chimere redentive, scollamenti di senso che finirebbero col darglielo
un senso al sapore che invade, inconfondibile, la bocca, nel punto
in cui l’abbandona l’entusiasmo per la strage; e non l’abbandona per
cautela, ma per insolvenza, perché non è reciproco il disprezzo.
(Non è disprezzo il disinganno di camerieri che pompano a dismisura
l’asimmetria delle scalmane, dei vol-au-vent, o di alcuni tronchi
dilaniati nel bosco come sacchi di coloniali.) Quanto a voi… come
accogliere l’adorazione di servi perennemente atterriti e burleschi?
Da cui viene che una ragione, quel sapore tedesco e quel disprezzo
tramandato debbono averla avuta, e averla tuttavia. Perché demeritarla,
fingendo che non l’altro in voi, ma altri avesse voluta questa guerra
cui neppure la morte sa mettere fine? che colma i boccali e li svuota
con l’acribia di una supina melancolia, che si stira e si avvolge in lana
superstite, in pagina voltata languidamente? Che con me, oltretutto,
non attacca, perché c’ero, e se c’ero, guardavo, e se anche non guardavo
vedevo, come ancora vedo e m’avvedo che neppure Lei ha mai saputo
dire, sorridendo, “fine de la comedìa”. Né ci sono entusiasmi o malori
che bastino ad inquinarla la passerella del Suo café chantant… erano
biondi biondi biondi i bei capelli corti, alla bebè, erano tondi tondi
tondi i bei gioielli del suo décolleté… anche se bevuta d’un fiato
una birra rimane, come dire, un simbolo, un’espressione d’amore

[…]

der die das, der die das, i lapis smocc fann i spegasc… ma una pioggia
incolpevole accentua i confini e le sorti mutevoli del misurare, il prurito
bisbetico dell’ingiuria che abbrevia la salmodia, l’inerme ululato della
voglia di erba voglio, del paradigma che sgorga dai tombini come acqua
alta, come perdita ignorata, inzaccherata, non confluita nella partita doppia
delle risposte adeguate: der die das, der die das, compagn de queji che
fan frecas per intorbidare la strapazzevole istoria, la parentesi quadra
delle ribellioni intermittenti: era già salda nelle vostre mani urticanti
la palma pretestuosa del campionato, la coppa d’oro che scaccia quella
d’argento, e l’orso amaranto, e l’ostraneniye di un’arroganza oftalmica,
turpiloquente, da zona Cesarini… sogna un amore l’estasi dove incarnarsi
e scardina ogni disonestà, ma noi, fuggiasche trappole, irrigidisce un solco
di pura oscenità. Arrotondati e labili, nel bosco che si muove, ci affossa
a più non posso una sgomenta età. Scartabellando ignobili fagotti, lingua
mortal sollecita pellucidi apparati, nottiluche omertà. Der die das dei
capitali annacquati, e di quelli esportati, e di quelli espropriati per l’asta,
e di quelli rubati perseverando nelle pratiche domenicali, fuori porta:
pane azimo, sugo di pompelmo… pancakes? Scomparti pressurizzati
stagni, inabili allo scoppio, infin che ’l mar sarà sovra di noi richiuso

[…]

Hans D

pesa di più la colla (un etto) o un etto di piombo? E del cavallo bianco
di Nabulione (da cui smontava per mettere le cose a posto) quale mai
sarà stato il colore? Ne nasce una specie di riffa, di timore arruffato,
una pietas che per dirsi acuta deve badare solamente al proprio idioma,
al proprio tornaconto, né mai ripugnare al metallo di una sua indomabile
efficacia. Dica lei se un dolore umano irredento (un etto) non pesi più,
sulla coscienza, di un etto di vilipesa e stracotta ragione aziendale,
o di stato. Anzi non dica niente: per spremere succhi efferati da uno
spregevole algoritmo, strizzato fino al punto da fare di una passione
un orgoglio, non basta che un tribunale di guerra si affolli di persone
subdolamente interposte, a fare da schermo, da segnale, per sostenere
che si tratta di “due gocce d’acqua”. Ci vuole piuttosto un fardello,
una palla al piede, una scuola per sub-normali, o almeno un ritornello,
recitabile a ritroso, la croce cucita sul petto di una controfigura, di uno
al di sopra di ogni pentimento. Se il regno dei cieli, oggi, è sulla terra
e persiste l’idea dei poveri di spirito, non dovrà dirsi l’America quel
regno, e non ne stanno i Forrest Gump ereditando gli effetti speciali,
il salvacondotto dell’uguale, alla cui legge repelle soltanto il coraggio
del boom-box, del finocchio venuto al mondo per dissanguare il sistema
riproduttivo? Dica lei se questo abuso di condanne, di consensi arruolati,
se questo stupro dello sguardo collettivo (del possibile intelletto) cui
nullo amato, è chiaro, amar perdona, cui non rincresce remora o dileggio,
dica lei se non nasce dal sorriso dolcissimo di un padre a cavallo seguito,
sul campo di battaglia, dall’ussaro più amato, intesi entrambi ad atti
generosi e stronzi, come il dare da bere agli assetati, il sopportare alcune
persone moleste che, mezze morte, ti dicono “caramba” e ti sparano
addosso? Anzi non dica niente, che potremmo trovarci anche noi due
su quel campo, lei senza senso e foggia, e talmente digiuno di sarcasmi
che di più non si può neppure col candeggio, io così affine, sfruculiato,
così teratologo in calore, che di più non si può neppure col candeggio

[…]

Ettore B

al sole si respira, questo è un fatto, e sono i fatti che danno
senso alle cose, che spingono a dirle prima che a qualcuno
venga in mente di schedarle, di addormentarne l’angoscia
e tradurne in orizzonti più vicini, più adesivi, la sfida che
ne promana, che sgrana e non ingrana, la legge fuorisacco,
la tregua del loro smarrirsi. Si può dire: “Siamo e saremo
animali di successo, pechinesi dagli occhi di saccarina”
e non morire mai; oppure “You disappoint me, Mr Bond”
e finire morti con la propria fortuna (sfacciata) alle spalle:
in un campo mezzo grigio e mezzo nero ci sono papaveri
e mammalucchi; mammaliturchi e mammole; ci sono anche
papere d’ingegno che l’affittano a metà con i dindi, che però
non ci sono, stante che per arrivarci bisogna attraversare
un fosso. È irriverente? Non è di sinistra? O è santo, santo,
tre volte santo, il tempo in cui, fischiando il vento (soffiando)
e tuonando la bufera (nevicando la frasca), anche per noi
si tacerà degli ultimi di noi, vedendo inscritta nell’idea
di modello la scomparsa dell’idea di festa? Non sono mai
stato di quelli che godono dell’altrui male (ma irritarmi,
mi irrita assai), e davanti a una strage di fanti che tacciono
per andare avanti, dico che perduto è quello che la spunta,
che si sfrega le mani per farne uscire l’odore della morte

[…]

noi siam li tristi sgarbi accalorati, le formicuzze,
il forellin dolente, noi siam le tristi penne scalcagnate
ch’abbiam copiato quel che voi scrivete, noi siam
le tristi penne imminchionite, e a dire il vero neanche
ben pagate, ch’abbiamo finto quel che voi smentite.
Noi siam queste bellezze sderenate, queste orrende
soffiate malpartite, noi siam queste ideuzze scavalcate
per cui da un po’ si azzuffano le fate. Or vi diciàn
perché noi siam partite, avviticchiate dolorosamente,
da quelle mezze strade malfamate dov’eravamo penne
travestite e siamci poste sì presso a la morte ch’altro
di noi non resta che sconcezze in tutt’altre faccende

[…]

Hans D

al corpo esasperato che dice voglio esserci si oppone
il trickster che si presenta sotto forma di animale
(volpe, coyote, coniglio, ragno) e mette a repentaglio
l’idea di verità, sia quella cui si giunge per astrazione,
sia quella che dio non può cambiare, sia quella, infine,
che ognuno si fabbrica temendo la propria castrazione:
un dio che inganni è raro, assai meno un dio protettore
degl’inganni (Ermes, Atena e Loki, tra i vichinghi,
che si oppone agli dei): milan milan vaffanculo, milan
inter vaffaonbagn, roma lazio vaffaonbagn. Lo disse
anche Bettino Craxi, e il «Times» di New York tradusse,
stupito, «… told them to take a bath». Noi stessi per
sentito dire cademmo nella logica ventosa di cronache
irredente, delle dispense, dei colpi di spugna, ignari al
cento per cento della madornale lussuria che distingue
l’inferno dall’utopia. Cari amici sportivi in ascolto,
è successo un fatto strano: c’è Badoglio con gli occhiali
che tormenta i generali, che ti ride sulla faccia: l’armi-
stizio è carta straccia. E poi ci sono le pive nel sacco
di cui non ha equivalente nessuna lingua forestiera.
Neppure in cinese puntiglio fa rima col cartiglio con su
scritto no pasaran, ma lì almeno è chiaro che pensare
non vuol dire perdersi tra stoppie sconvolte da un dio
che colpisce da lontano, bensì perdersi senza rimedio
nella risaia, sconfitti dal cuore famelico che la sovrasta

[…]

Voci anonime negli spogliatoi

ieri ho ricevuto due lettere, e l’ultima era in data 25
7 cioè il giorno prima che eventi di grande importanza
avvenissero in Italia. Sono però fiducioso che tutto ciò
non abbia per nulla intralciato il tuo progetto, e che
mentre io ti scrivo tu sia già a ***, per goderti un po’
di quel meritato riposo che tu meriti… Mi fa piacere
sentirmi dire… e ti garantisco che non vedo l’ora…
poterlo ancora prendere in braccio e rivederlo con
i miei occhi. Ma anche quel giorno dovrà venire, Dio
non potrà disporre altrimenti, sarebbe troppo brutto
negarmi di riabbracciare i miei cari, almeno per una
volta sola. Ma è meglio che cambi discorso altrimenti
scendo in una china che potrebbe rattristarti, mentre
io desidero che tu ti mantenga quella che ho in mente
io e così al nostro riavvicinamento non ci sarà da dire
nulla di questo tempo perduto, ma faremo come se
non ci fossimo mai lasciati. O mia cara, vorrò amarti
fino a stancarti, e tu perdonerai queste mie prepotenze
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ce n’è che strisciano, che scavano, che si contorcono,
che dicono d’essere matti da legare, che non fanno
più parte del progetto di adeguare il mondo all’idea,
ma c’è più odore di bruciato che di non sapere; ce n’è
che insistono a parlare di denaro inviato; e ce n’è anche
che dicono noi no, noi eravamo con voi. Ma, gli uni
e gli altri si contano ormai sulle dita di mani annerite,
oleose, cadute per via da un carro di assiomi putrefatti

[…]

CORO

chi organizza la propria vita ed è un ritorno la vita che organizza,
a lui gli tocca entrare in ogni fuga, restare con un pugno di mosche
chi trasferisce (negando) l’attesa di padre in figlio e si sgomenta
nel figlio, può fingersi maschio abbattuto in un campo di stoppie
chi per tutta la vita ritorna, ed è godimento in lui lo struggimento
del non tornare, la sua vita è lo stesso che passare da esasperato
senso a suono che suscita un riso: se basti, per ridere, occultare
il varco per cui si accede al gioco delle parti, alla ridda del tenere
a bada (fatto di gomma come sono, se gioco, gioco in porta, dove
anche i paranoici hanno diritto di sentirsi minacciati). Nel cretto
impassibile del segno (per cui si vince) che più si sdipana e più
minaccioso dimora, il Duce ha sempre ragione, sempre, i tedeschi,
torto. Latine loquitur? Ufun pofocofo… insomma me la cavo,
ma è chiaro che non c’è rimedio a ciò che si acquista fuggendo

[…]

ETTORE B

there’s not a shred of doubt that I am dead. There’s some
debate as to how it happened: fallen, according to all
reports, in open combat, after days of delayed attacks, some
nasty rumor ran they put me up against the wall. Uncertainty
could not but shake one who had fashioned my silence
into a sort of reason, by means of sarcasm, or surges of
insuppressible wrath, (My absence aroused expectations
I would have been proud to avoid.) Struggling to be counted
with the living, I stirred up unsuspected but not illicit whiffs
of truth: that bad faith, to name one, is better noticed when
an intermittent loathing succumbs to the flatteries of a Godmasseur,
or when it doesn’t croak like frogs, nor screams,
when to the right you hear a trumpet blast answered by a
blast on the left. Awareness of a masked existence unfolds
unsuspecting symptoms of clairvoyance and paroxysm (to
be in it, to stay with it, singing to feel better, to understand
who, without guilt, asked for and paid the bill, who dumped
the ballast.) Dead or alive, it is as living we retrace the steps
of our crime, and return to it, unctuously, feigning death

[…]

ETTORE B

most do not steal directly, though inclined to profit, to the oh so
fruitful analogy of sex and cooking (beat gently, moisten, reduce
possible acidity with a pinch of sugar, cook in a large Dutch oven,
serve either hot or cold). Without a trace of fury, most disdain
redemptive illusions, the collapsing of senses that would explain
the unmistakable taste filling the mouth when the thrill of the
massacre deserts it… not as precaution, but from insolvency. For
the feeling of disdain could not be reciprocal. (The disenchantment
of waiters blowing out of proportion the asymmetry of excited hot
flashes, or vol-au-vents, or tree trunks torn to pieces, like sacks
of groceries in the woods, is not disdain.) As to yourselves… how
to accept the worship of servants perennially terrified and farcical?
Clearly that German flavor, that handed down contempt must have
had a reason, and must have one still. Why degrade it, pretending
that not some Other in you, but others had wanted this war that
death itself cannot end, that fills and empties mugs with the precision
of a supine melancholy, stretched and wrapped in the surviving wool
of an indolently turned page? It takes much more than this to fool me,
for I was there, and if I was, I was watching, and even if I didn’t watch,
I saw, as I still do, that not even you, dear sir, have learned to say, with
a smirk, “end of the show”. No thrill or swoon could ever spoil the
walkway of your precious café chantant… ah they were blond, blond,
blond, those little baby bangs, and they were round, round, round
the lovely jewels of her décolleté… gulped down, a glass of beer
remains a symbol, if you will, an expression of true love

[…]

ETTORE B

der die das, der die das, lousy pencils make a mess, alas… but a blameless
rain accentuates the boundaries and the erratic fate of measuring, the
nagging itch of curses that cut short the chanting, the defenseless howl
of “wanting never gets”, of paradigms gushing out of manholes like high
water, a muddy and neglected loss unrecorded in the ledgers of suitable
responses: der die das, der die das, and all along the troubled fuss of
scrambling the mired down threads of history, the square brackets of an
intermittent rebellion. You held already in your stinging hands the pretext
of the championship trophy, the Golden Cup that humbles the Silver, the
Amaranth Bear, the ostraneniye of an ophthalmic, and foul-mouthed buzzerbeating
arrogance … to turn to flesh love dreams of ecstasy unhinging all
deceit, but we grow stiff, derelict running traps, in furrows of mere lewdness.
Rounded and fleeting in a moving forest we are sunk as deep as ever
by a bewildered age. Rummaging through loathsome bundles, human
tongues elicit diaphanous frameworks, sea-sparkling conspiracies of silence.
Der die das, of inflated capital, exported or expropriated at auctions, and
of the stolen capital persevering in the rites of sunday outings: bread,
unleavened bread, grapefruit juice … pancakes? Pressurized, watertight
compartments, impervious to explosion until the sea would close above us

[…]

HANS D

does glue (a quarter pound) weigh more, or does a quarter pound of lead?
What might have been the color of Napoleon’s white horse (from which
he would dismount to put his things in order)? Something like a raffle
peels off from such dilemmas, a ruffled bashfulness, a pietas that to be called
acute must pay attention to its own idiom, its own advantage, and never repel
the metal of its untamable efficiency. You tell me if unredeemed human suffering
(a quarter pound) weighs more than a quarter pound of vilified and overcooked
reason of state (or corporation). On second thought, don’t say anything: to squeeze
malevolent juices from a putrid and shrunken algorithm whereby passion turns
into pride, it takes much more than a war tribunal crowded with surreptitious
people, interposed to act like screens or signals, to maintain that passion and
pride are “two peas in a pod”. What might work is a bundle, a stumbling-block,
a school for sub-normals, or at least a roundel that can be recited backwards,
the cross sewn on the chest of a stand-in, someone beyond repentance. If the
kingdom of heaven is on earth, and the notion of the poor in spirit is as pervasive
as ever, can’t America rightfully be called that kingdom, and aren’t all Forrest
Gumps heirs to its special effects, to the safe-conduct of “it’s all the same,” an
equality whose laws may be repelled only by the courage of boom boxes, or
by queers born to jam the reproductive system? You tell me whether this abuse
of convictions and conscripted consent, this rape of the collective view (of the
possible intellect) that clearly absolves no one beloved from loving back, and
is not affected by either hindrance or mocking, is not born of the sweetest smile
of a father on horseback riding through the battlefield in the company of his
faithful hussar, both of them bent on generous and imbecile acts? To feed
the hungry, quench the thirst of the thirsty and bear patiently the torture
of obnoxious people who, half dead, may rise to say “caramba” and shoot
at you. Actually, do not say anything, for we too might find ourselves out
in that field, you without meaning or shape, so deprived of sarcasm that more
you could not be even with bleach, and I, so self absorbed and taunted, so much
like a teratologist in heat, that more I could not be not even with bleach

[…]

in the sun you can breathe, that is a fact, and it is facts
that give meaning to things, urging us to speak of them
before someone thinks of keeping a file on them, to put
their anguish to sleep, and turn into a closer, more adhesive
horizon the challenges they issue, that thresh but don’t
mesh the law of special delivery, the fair truce of their
perdition. You might say: “We are, and will be, animals
of success, pekinese dogs with sugary eyes” and never die.
Or: “You disappoint me Mr. Bond” and end up dead by
the unheeded sign of an outrageous fortune: the half gray,
half black meadow is full of mamelukes, mammatheturks,
and mammamias, as well as industrious ducklings that
rent it in partnership with turkeys, who are not there, however,
since to get to it you have to cross a ditch. Is it irreverent?
Is this no leftist talk? Or is it holy, holy, holy, the time when
under the whistling wind and the snowing branches, we too
won’t talk about the last of our men, seeing the idea of revel
flounder in the idea of pattern? I’ve never been one to rejoice
in the misfortune of others (it even riles me, at times), but
when I witness a massacre of infantrymen “who silently
march forward” I say that it is the winner who has lost,
who rubs the back of his hands to release the smell of death

[…]

CHORUS

we’re sadly heated bags of rudeness, little ants,
the woeful pinpricks, the slipshod quills that have
transcribed what you have written. We are the sad,
the dumb, and, truth be told, the poorly compensated
quills that feigned the tales you contradicted. We’re
the crooked beauties, some sick and badly parcelled
squeals, the obsolete ideas about which fairies have,
of late, begun to squabble. And we shall tell you now
why we have left behind, painfully twined and twisted,
those ill-famed half streets where we were quills
disguised, and have come so close to death that nothing
is left of us, save for some lewd and unrelated matter

[…]

the exasperated body that says I want to be there is
opposed by the trickster who shows up under the guise
of an animal (fox, coyote, rabbit, spider) and jeopardizes
both the idea of truth reached through abstraction, and that
which not even god can modify, not to mention the truth
that, fearing castration, each of us fabricates: a cheating
god is rare, less so a god protecting cheaters (Hermes,
Athena, Loki, for the Vikings, who antagonizes other
gods): milan milan vaffanculo, inter milan vaffaonbagn,
lazio roma vaffaonbagn. Even Bettino Craxi blurted it out
and the bewildered newsman from the New York Times
translated: “told them to take a bath”. We too, induced by
hearsay, fell for the airy logic of unredeemed chronicles,
of lecture notes and slates wiped clean, utterly unaware of
the vastly exaggerated lust separating hell from utopia. Dear
sports fans, stay tuned. Something odd is going on: Foureyed
Pietro Badoglio is harrowing his own soldiers, and
laughs in their face, gentlemen, this truce is not worth the
paper it is written on. We shall then consider the locution
pive nel sacco whose essence no foreign tongue can capture.
Not even in China a roll of dice can rhyme with a scroll that
reads No pasaran, but there, at least, thinking does not mean
being left in a field of stubble ravaged by gods who strike from
afar, but rather hopelessly losing oneself in an arabesque of
rice paddies, defeated by the famished heart hanging over them

[…]

ANONYMOUS VOICES
FROM THE LOCKER ROOMS

Yesterday I got two letters. The second dated 7/25, the day
before events of great significance took place in Italy. I’m quite
confident though, that none of this got in the way of your project,
and that as I am writing, you are already at ***, relishing the wellearned
rest that you deserve… I like to hear you tell me… and rest
assured that I can hardly wait… could I only take him in my arms
again, and see him with my own two eyes. That day must come as
well, and God cannot arrange things otherwise. It would be too
cruel if I were denied the chance to embrace my loved ones again,
just once. But I better change the subject or I’ll go down a path
that might sadden you, when I want you to stay the way I’ve
always known you, so when we meet, there won’t be any talk of
lost time and we’ll act as if we’d never parted. Darling, I want to
love you until I wear you out, if you’ll forgive my boldness
……………………………………………………………………………………
……………………………………………………………………………………
There are some who crawl, who dig, who squirm, who say they’re
raving mad, no longer part of this plan to adapt the world to
the idea, but the smell of burning is stronger than the smell of not
knowing. And there are some who insist on talking about the money
they sent home. And even some who say, not us, we’ve always
been on your side. But all of them can now be counted on the fingers
of blackened, oily hands, falling off a wagon of putrefied axioms

[…]

CHORUS

he who crafts his life, and crafts it as a game of returns,
must take part in every breakaway, and end up with a fistful
of flies, he who, in denial, dismayed by his own son, transfers
expectations from father to son, can feign to be a male slain
in a field of stubble, he who spends his life retuning and finds
delight in the yearning of not returning, his life is the same as
passing from exasperated sense to sounds inducing laughter:
will it do, for laughter, to hide the gap that leads to a game of roles,
to the hassle of holding back? (As I am made of rubber, when I play,
I play goalie, where even paranoids can feel rightfully threatened.) In
the impassibly dry lakebed of the sign (by which you win) where threats
grow thicker the more they unravel, the Duce’s always right, always the
Germans wrong. Latine loqueris? Ittlelay itbay… at the end of the day,
I get by, but clearly there is no cure against things acquired in retreat

[…]

adminCefalonia