Il terzo Gode
inattendere
per Glauco
il tempo che ci vuole (se il tempo è matto)
non è buco né sugna e non è moto perpetuo:
chi chiederebbe il bis, chi saprebbe altrimenti
rapire il cantante, il satana di turno
il conflitto, se c’è, si può strigliarlo
per mari e monti e fino a che passi la voglia,
oppure schivarlo a piene mani, chiuderlo,
per finta, in una dicitura surrogante:
pare anche a te che gli estremi siano frutto
di reticenza, di rime aspre, maligne, di querele
guarnite d’invidia, di aromi, di spighe petulanti
pergamena è questa incolume pattuglia dove un male
inesperto si accontenta e la regola è quella delle carte
(averle in regola e temere però di non averle) o quella
dei talenti raddoppiati, dell’inseguire il complice
per forza, e la vittima per mettersi alla pari
conteggio è dunque l’eccezione: quel mischiare
le arance con le pesche, quell’obliquo raddoppio
e questa sfoglia che scolora in asma, in aquilone:
chi ti cerca si mostra nel sogno, e non si mostra.
O vieni a raccogliermi, Signore, di mattina presto,
raggiungimi nel solco da cui non si deduce
*
Corse in pista e su strada
per Fausto Coppi
Un uomo e solo al comando [pausa] La
sua maglia e bianco celeste [pausa] Il
suo nome [pausa] Fausto Coppi
Mario Ferretti
Bottom Let me play the lion too: I will
roar, that I will do any man’s heart good
to hear me; I will roar, that I will make
the duke say, “Let him roar again, let him
roar again”
Midsummernight’s Dream, 1, 2
I
a sorsi a spifferi a comandi
e seguitando (e scongiurando),
con mani relative, sderenate,
a omelie, con indugio del verbo,
dell’ipoteca, è questa l’ultima
lettera rubata, il tramestio
dell’alveare unico e la mappa
del mondo alla rovescia. Più
inerme, più imitabile vergine
non scalcia, non ridona soffi
agli accordi, né da più intonsa
pellicola emerge la fumigante
bùccina dell’anagramma, del buco
che rientra nella cera. Altri
midolli, altre cuccagne omologa
il sussiego della mezza cottura,
della voce insabbiata, altri
inventari la giraffa infrollita
del giro, il tapiro del tandem,
della cronometro a squadre
II
siano senza disdetta i reclamati
punti di partenza, i due volte
induriti, le azalee, le trame
differite, gli àrbitri per cui
germogliano i comizi, le assidue
prolessi, le comiche a doppia
mandata; siano per lucidare,
per dirsi a mandorla e per farsi
residuo (dietro front e scoppio),
i labbri verdi del punto, di una
lontananza che rimbalza come
un aquilone, che celebra, immune,
il noviziato. Da cui l’agguato
che spiove disarmonico e questo
filo da torcere che inceppa, che
si espande in asola, in mercato,
che si assottiglia in tremito, in
timore. Da cui l’ipotesi di una
congiura innocua («sono gli uccelli
naturalmente le più liete creature
del mondo»), di una mimesi arcuata,
concessa ai disinvolti, di un mito
arcuato e disinvolto, dietro motori
…
*
la langue artificielle
per Paola
colpisce a tradimento, sgrana
le maglie lavorate, il ferro,
cesure di un assenso a coda
di volano, a scivolo, a scacco
matto, scagiona chi è scampato,
chi funge da vescovo, irrompe
da ogni buco, da ogni episodio
tagliato, mette a nudo il fiele,
stravolge l’ordine d’arrivo:
un uomo solo al comando (nella
pienezza del proprio isolamento)
si spaglia con astuzia latente,
con imbeccata, confluisce in varo
suggella l’ipotesi di un altro
gancio, di un altro pronostico
ma per diffondere, per riciclare
rimorsi differiti (rilancio del
pastiche, della cavia), naufraga
per diluire la fine del canto:
è anche un dormire che azzecca
s’intarsia di assedi, di scarichi,
spolvera magre aporie, riaccende
il tangibile oggetto, la delega,
la sua farinosa tortura, ma quando
implode, alla prima stazione, nel
comminare-mutare, nell’alleviare
le some, le lune sommarie. Rimuove
formule indegne di contromarcia,
di alfabeto (a ummo a ummo), risale
a più acconce ossature: da leone,
da gambero. E se per asola intende
l’insopprimibile glib, la tesi
del bric-à-brac che coccola
progetti acuminati, che conta
i sassi in tasca o li succhia
potrebbe dal bosco arditamente
uscire, fusa, svergognata, che sa
di primizia, di rapina, potrebbe
ostinarsi in questo idillio di spade
ingoiate in extremis, come novene
o esagoni di miele, col dito alzato,
potrebbe, succube, tornare al banco
degli imputati, di quelli che dicono
mezzo cammino oppure mezza montagna
intuendone appieno le conseguenze
*
L’inattesa del messia
There is a project for the sun. The sun
Must bear no name, gold flourisher, but be
In the faculty of what is to be.
Wallace Stevens
L’idea del messia e la condizione dell’attesa sono ciliege che si tirano a vicenda. Perché la figura del mashi’ach, dell’«unto del Signore», ovverossia di colui che deve venire, possa costituirsi, occorre infatti che essa si configuri all’interno di una ineccepibile alleanza semantica con l’ipotesi, almeno, e in qualche caso con la reale presenza, di qualcuno che ne attenda la venuta.
Reciprocamente, l’attesa non può che derivare la propria energia (la «tendenza» di colui che attende) dalla «messa in opera» di un oggetto esterno, più o meno lontano, più o meno disposto ad avvicinarsi, in cui l’attesa stessa possa o trovare, o immaginare di trovare, il proprio appagamento e, dunque, la propria dissoluzione.
Le opinioni intorno ai tempi della venuta, così come quelle intorno ai modi e alla durata dell’attesa, sono diverse, ingarbugliate e, non di rado, divertenti. Ne registra un discreto numero il libro del Sinedrio.1
Secondo Ze’iri, per esempio, che parla per conto di rabbi Chanina, il messia non potrà sopraggiungere finché in Israele si troverà anche un solo uomo presuntuoso; oppure, sempre secondo Chanina, finché non ci si metta in cerca di un pesce per una persona malata e non si riesca a trovarlo. Oppure ancora, secondo rabbi Jochanan, il messia non verrà fino a quando gli uomini saranno o tutti innocenti o tutti colpevoli.
II sottilissimo e cautelante stupore che emana da queste dichiarazioni permane immutato in alcune delle profezie redatte al positivo. Secondo rabbi Jose b. Kisma, per esempio, il messia verrà quando la porta di Cesarea Philippi sarà stata distrutta, ricostruita, nuovamente distrutta e nuovamente ricostruita, distrutta una terza volta e prima che gli operai possano ricostruirla un’altra volta.
C’è anche chi azzarda date vere e proprie: rabbi Chanan b. Tachlifa dice di aver appreso da un mercenario che aveva militato nell’esercito romano e possedeva un manoscritto ebraico redatto in caratteri assiri, che quattromiladuecentotrentuno anni dopo la creazione il mondo sarebbe rimasto orfano. Dopo di che Gog e Magog avrebbero combattuto fra di loro. Dopo ancora sarebbe incominciata l’era messianica.
Gli aspetti fondamentali e gli accadimenti dell’era messianica sono anch’essi materia di accanita speculazione. Intanto, per quel che concerne la sua durata, si va dai 40 anni proposti da Rabbi Eliezer ai 7.000 di rabbi Abbahu. A sentire Rab Judah, che parla per conto di Samuel, il numero degli anni uguaglierà invece quello che sarà intercorso dai tempi della creazione alla venuta stessa del messia. Il che vuol dire che la storia, e perfino quella dell’uomo, sarà divisibile in due, secondo una simmetria che è anche un perfetto schema aristotelico: nella tragedia del mondo il messia funziona come portatore e agente di peripéteia. C’è chi varia su questo tema, come rabbi Nachman b. Isaac che all’epoca della creazione preferisce sostituire quella del diluvio.
Quanto alle circostanze dell’avvento, esse non potrebbero essere più deplorevoli. Nel periodo immediatamente precedente alla venuta del messia — dice, tra l’altro, rabbi Isaac citando rabbi Jochanan — gli uomini di studio saranno pochi. Inoltre verranno promulgati in continuazione editti infami: gli effetti di un editto non saranno ancora passati che già ne verrà promulgato uno nuovo. Rabbi Nehorai rincara la dose: i fanciulli imbarazzeranno gli anziani, le figlie si ribelleranno alle madri, le nuore alle suocere, e tutti quanti avranno facce di cane.
A questo marasma incalcolabile porrà dunque rimedio il messia. Essendo bar Nafle (così lo chiama espressamente rabbi Nachman), ovverossia figlio di chi è caduto (e il riferimento alla dinastia davidica diventa in tal modo trasparente), egli erediterà insieme con l’esperienza dell’esilio (galut) anche la capacità di rinfrancare lo spirito di coloro che in esilio continuano a trovarsi.2
I rabbini insegnano inoltre che il messia giungerà dopo un ciclo di sette anni durante il quale le novità si sostituiranno alle recrudescenze. A partire dal quarto anno, cesseranno le carestie e lo studio della Torah verrà ripreso. La ragione per cui il nuovo corso non comincerà veramente che all’inizio dell’ottavo anno, recitano i glossatori del Sinedrio, è questa: il numero otto rappresenta l’eternità. Ciò verrebbe a dire che il messia ha poteri oltremondani e che il suo regno non avrà mai fine.
Non mancano tuttavia i bastian contrari. Contro, o, più semplicemente, a lato del coro fittissimo, ma per l’appunto non unanime, di voci inneggianti alla speranza di una repentina o teleologicamente ordinata redenzione, si ascoltano voci non proprio dissenzienti, ma certo minate dallo scetticismo e, in maniera ancora più sorprendente, dal disinteresse. Affermano Ulla, Rabbah e rabbi Jochanan: «Venga pure il messia, a noi però non fatecelo vedere». Ciò è probabilmente detto in senso apotropaico e dunque nella speranza di evitare le ansie e i dolori che la nascita di una nuova era comporta.
A rabbi Jochanan risponde Resh Lakish insinuando l’idea che, in ogni caso, nascita o non nascita, il dolore è inevitabile, e che quindi non ci sarà grande differenza tra gli anni dell’ avvento e quelli precedenti. Anche quando non devono partorire l’era del messia, gli uomini sono infatti soggetti a ogni sorta di tribolazione.3
Sdegnose, esplicite e perentorie, come certamente sono, non è improbabile che alla fin fine queste ultime dichiarazioni celino molto di più di quel che l’immediatezza della loro elocuzione non lasci trasparire. Non vi si potrebbe scorgere l’indizio della preferenza accordata al fatto dell’attendere in sé, piuttosto che a quello del suo compiersi? In altre parole: dietro l’apparente corrività dell’espressione non si potrebbe cominciare a leggere l’intuizione che il compimento della promessa redentiva comporterebbe il gravissimo problema di dover poi adeguare a quella promessa tutta la storia successiva?
E che ne sarebbe dell’umanità quando il suo destino si riducesse a una ricerca di conferme? Non ha forse ragione rabbi Samuel b. Nachmani che parlando a nome di rabbi Jonathan maledice le ossa di tutti quelli che fanno previsioni circa l’avvento del messia? Se le previsioni sono false — egli dice — finiranno con lo spingere la gente a credere che il messia non verrà mai. Ciò nonostante ognuno dovrebbe stare in attesa del suo avvento.
C’è infine chi si è persuaso che il suggellatore della promessa sia già comparso e che la promessa stessa, in qualche modo, sia stata già compiuta. Rabbi Hillel, per esempio, sostiene che ciò sia avvenuto ai tempi di Hezekiah.4 Ma un messia già venuto è anche, inevitabilmente, un messia inerente e cioè solidale con il mondo così com’è. Il che comporta che il cerchio si chiuda senza una vera differenza tra il prima e il dopo. La simmetria diventa inerzia.
Per evitare che ciò succeda occorre che il dopo sia concepito come rimando e il rimando come spunto, come occasione di un’ulteriore venuta. E ciò tanto che il messia sia già comparso ai tempi di Hezekiah quanto che stia invece per comparire all’inizio dell’era cristiana.
Spavaldamente ispirato dalla presunzione di poter accedere ai misteri della giustizia divina, o cautamente meritato per ascolto e per onesto esercizio della propria istigazione cognitiva, discorso intorno alla effettiva comparsa del messia dovrà dunque accogliere come chiaramente distinte la face dell’annuncio, della maturazione annunciata (venuta del messia e inizio dell’era messianica) e della maturazione realizzata (fine del mondo).
Per i cristiani, lo stato di febbrile attesa, la pausa di eccitamento che distingue le prime due fasi dev’essere trasferibile nello spazio che separa la seconda dalla prima venuta del messia. In questa pausa i modi e gli aspetti del passato non possono che decantarsi in quelli di un futuro anteriore.
Il merito di aver iniettato nella promessa destinata a compiersi, e forse già compiuta, i veleni inebrianti della promessa in perenne attesa di compimento va attribuito, più che ad ogni altro, a Paolo di Tarso. Il suo acutissimo intervento consente di superare d’un balzo sia la posizione rassegnata di rabbi Hillel sia quelle più smaliziate, e però alla fine inconcludenti, di chi avrebbe preferito ignorare del tutto la problematica dell’avvento.
Con Paolo, chiaramente, il non adempimento cessa di essere tragedia, scontro di monologhi che fingono un dialogo, di programmi chiusi a doppia mandata da responsabilità prefissate e vincolanti. E dopo Paolo attendere non vuole più dire far passare il tempo vegetando nell’ossessione che impedisce al pensiero di diventare azione. Vuol dire, al contrario, costruire con entusiasmo la propria morfologia coscienziale. Ai concetti che nella circolazione linguistica ordinaria accompagnano l’attendere (lunghezza, durata, sviluppo sequenziale ecc.) si sostituiscono i concetti di tensione, accortezza, eccitazione. Diversamente da una mela che matura col passare delle stagioni, la maturazione dell’essere umano si genera nel suo interno, in maniera del tutto indipendente dal trascorrere del tempo. Non è il tempo che definisce l’uomo, ma la sua capacità di trarre sapienza dal fare (anziché dalle statistiche e dalle razionalizzazioni). Si da infatti, per assurdo, che un essere umano escluso dal fare possa invecchiare — e di fatto, in molti casi, invecchia — senza maturare mai.
«In quanto al tempo e al momento», scrive Paolo,5 «non avete bisogno, o fratelli, che ve ne scriviamo. Voi stessi sapete benissimo che il giorno del Signore verrà come il ladro nella notte. Quando diranno: “Pace e sicurezza”, allora improvvisa li sorprenderà la rovina, come le doglie della donna incinta e non avranno scampo. Ma voi o fratelli non siete nelle tenebre, perché quel giorno vi debba sorprendere come un ladro; voi siete tutti figli della luce e del giorno. Noi non siamo della notte e delle tenebre. Non dormiamo, quindi, come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri…»
È lecito, oltre che opportuno, rinvenire proprio in questa agripnia, in questa instancabile vigilanza, il cardine disequilibrante di ogni previsione. In virtù di questa galvanizzazione della pausa, dello stallo, in virtù dunque di questa rimessa in discussione non dico della garanzia, ma perfino dell’idea che mai si possa dare garanzia, la condizione dell’attendere si trasforma in un ben più fertile esercizio: quello dell’inattendere.
Dietro semplici prefissi si nascondono testimonianze, disputazioni, attività desultorie di straordinaria importanza. In-ad-tendere. Il gioco è tra le parti. Come può indurre privazione ciò che raddoppia e anzi moltiplica l’inclinazione del tendere? L’inattendere non denuncia un comandamento negletto, una promessa frustrata. Tutto ciò troverebbe asilo sotto la rubrica del disattendere. Mentre i campi semantici dell’attendere e del disattendere, pur divergendo, sono infatti contigui, e appartengono al regno dell’autorità che giudica, e premia o condanna, quelli dell’attendere e dell’inattendere designano filosofie e stili di vita reciprocamente estranei.
Se qualche parentela può vantare l’inattesa, essa è con il delirio della ripetizione: una ripetizione staccata in pause. Il che, ritornando al messia, viene a dire questo: che bisogna credere alla sua venuta senza però attendersi che la sua venuta stia per compiersi. E che non importi che si compia, almeno non subito, sostengono proprio quelli che alla sua venuta hanno già creduto, e anzi ne attendono una seconda.
Leggiamo ancora in Paolo: «Ora, circa… la nostra riunione con lui (Cristo), vi preghiamo, o fratelli, di non lasciarvi così presto turbare lo spirito, né allarmare da rivelazioni o da dicerie o da lettera data per nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente».6 E già Matteo aveva scritto, citando direttamente le parole di Cristo: «Badate che nessuno vi seduca. Perché molti verranno in nome mio a dire: “Io sono il Cristo!” e sedurranno molti. Allora sentirete parlare di guerre e di rumori di guerre; guardate di non turbarvi perché bisogna che ciò avvenga; ma non è ancora la fine»7
Sospetto che in questa ferita del desiderio (e del pensiero), l’utile, la redenzione, il compenso, abbiano poco spazio. È semmai la poesia che può approfittarne per ordire un ennesimo confronto con il reale: ciò che urge al di là e al di qua di ogni possibile rappresentazione. E questo reale la poesia sceglie come suo precipuo argomento. Viene un ulteriore sospetto: che al di fuori di questa condizione messianica la poesia non voglia e non debba trovare spazio alcuno.
Note
- Sanhedrin, a cura di Jacob Schachter e H. Freedman, London, The Soncino Press, 1969, 96a-99a. Sono stato spinto nelle acque perigliose e spiritate di questo testo dalla lettura di On Pagans, Jews, and Christians di Arnaldo Momigliano (Middletown, Wesleyan University Press, 1987). Vedi in particolare il capitolo «Some Preliminary Remarks on the “Religious Opposition” to the Roman Empire», pp. 120-141.
- Con il termine galut gli autori biblici designano la cattività babilonese. Solo nel linguaggio rabbinico, in epoca successiva alla distruzione del Secondo Tempio, il termine acquista un significato più ampio che si estende dal concetto di esilio e schiavitù fisica a quello di straniamento e inconsapevolezza.
- Resh Lakish interpreta un celebre passo biblico (Amos, v, 18-19), assegnando alle metafore del testo valori di vita quotidiana: «Guai a coloro che desiderano il giorno di Dio! Che cosa sarà per voi quel giorno del Signore? Sarà giorno di tenebre e non di luce. Come quando uno fugge un leone e s’imbatte in un orso, e se entra in casa, appoggiando la mano al muro, viene morso da un serpente». Sotto la specie del leone si nasconde la realtà del balivo che contesta la proprietà di un terreno; sotto quella dell’orso, l’esattore delle tasse, mentre al morso del serpente viene paragonato il dolore che uno prova davanti alla fame dei figli che attendono a casa. Sanhedrin, cit., 98b.
- Tredicesimo nella serie dei re di Giuda. Salì sul trono a venticinque anni e ne regnò ventinove: secondo la cronologia più comune dal 727 al 698. Massima risonanza ebbe l’opera di Hezekiah come riformatore religioso. Riaprì le porte del Tempio, chiuso dal padre Acaz, celebrò con gran pompa e copiosi sacrifici la festa della Purificazione, ristabilì quindi in pieno il culto di Iahvè, e rivestì di oro le porte del Tempio. Riprese anche l’interrotta celebrazione della Pasqua inviando araldi a bandirne l’annunzio in tutte le tribù.
- Prima lettera ai Tessalonicesi, v, 1-7.
- Seconda lettera ai Tessalonicesi, ii, 1-2.
- Evangelo secondo Matteo, xxiv, 4-6.