Se il tempo è matto

se il tempo è matto

una pioggia di primi versi che a mandarli sarà
stato il demonio e che a venderli così grezzi si
direbbero strumenti di un’industria in ritardo:
un’officina del neolitico nell’età dei chips (delle
chips?): un tornado sollecito a risarcire tutti
del lugubre erotismo che ci sovrasta, della mezza
stagione che ci possiede: hai voglia a dire ma io,
se l’io non è dicibile neppure come scherzo, come
lena o altalena. Hai voglia a contare, a presumere
schiarimenti (morda, macini, maciulli, sciacqui…).
Nel mondo delle doppie soluzioni, prima di avere
la fortuna alle spalle (o di mettersi alle spalle le
mezze montagne, le mezze tinte, le mezze calzette),
c’è la str di strada che ti agguanta e vivifica per un
istante, e di struttura e di estrella, ma non forse di
estratto (abstract) di olio e canfora e midollo, di
primula veggente che sostiene il trionfo di chi ha
debiti e rovine da restaurare. Adesso sì, adesso no,
come i carabinieri delle barzellette che, obbedienti
e fedeli, si strattonano spingendosi fino a Salemi,
a Falconara, all’isola di Prospero, e oltre, senza
dimostrare affanno, e restando in bilico. Spari.
Sì gli spari fanno capire che non si può rinascere
sotto mentite spoglie; e chi non spara è perché ha
già sparato o si è tagliato il dito del grilletto

 

credo in un dio randagio

credo in un dio randagio, nauseato dalle cause,
che scompare a intervalli regolari, un dio assai
muscoloso, di statura media, che pesca e ripesca,
e a furia di pescare pesca un figlio che da grande
farà il pescatore di figli. Credo in un dio scavante,
silenzioso, che non dà il cane o altro sapido animale
da passeggio, o da grembo, un dio incerto, incerato,
sovraimposto, che apre alcune danze bicostali,
bilingui, bisessuali. Credo in un dio scaraventante
che cammina sulle uova, un dio a ritroso che sta
davanti, che beve, che è sul punto di affogare
credo del pari nella posta in gioco, nella metà e nei
tre quarti del tutto, nel quasi subito e nel quasi tutto,
credo in chi non vede il trucco e, nulla sapendo
della morte, sostiene che sia come fare la fronda
o segnalare la propria presenza nei dintorni e, anzi,
dentro il testo, fino in fondo, perché muoia, quel testo,
di stenti, e sia dunque la morte un uccidere l’altro
che ha scritto, che può tradurci in soggetto. Credo
nella comunione dei malefici, delle ipotesi stanziali
e nelle realtà di passo, credo nelle nudità incrociate
secondo l’aria che tira nella gestione dell’azzardo
e credo nella voce che fa parte dell’intrigo e dello
scatenarsi delle passioni più ignobili, e nel ritmo
dell’intarsio, nel musolungo degli eroi di stato
accecati da un’idea di ragione, credo nel sottovento,
ma con le onde contro, sotto e sopra, e di fianco,
col male in arnese che canta, che attacca i tacchi
a quelli che attaccano i tacchi, e alle tacchine, ai muli
frenetici, ai montoni di un mezzodì che cuoce cervello
e cuore. Credo nel jalous che ritorna e nel jongleur
che se la svigna, nella fatina (che frigna) e tiene pelo
largo e turchino, credo nel bambino che si nasconde
nella marionetta, e nella marionetta che si sgola
coram populo, o che recalcitra di buon mattino
perché qui non c’è Almagna (né Turchia né Spagna)
e la selva non è bianca e non è nera, e nemmeno
è di cera l’equazione di catenaccio e arma, di ghiaccio
che sgombra la metà campo e ombra da cui null’homo
può trarre dignità o sgomento, né può dargli lenimento
l’equanime rumore della perfezione, della cariatide umana
che s’accascia dopo avere creduto di riconoscere
perché non c’è tregua, in Almagna, dopo la vittoria
di chi aveva fatto (e fatto fare), su quelli che s’erano
messi in testa di farcela lo stesso, o magari di farsela
con uno, o con due, e insomma di non badare a spese

 

due versioni dal greco

per avanguardia storica s’intende lo svincolo,
a posteriori, delle clausole assoggettanti: qualche
aritmia, ma da non farci caso, qualche interiezione
ma non dargli peso, e qualche generica calunnia:
una virtù insegnata una volta per tutte da Omero
(che occupa uno scranno d’eccezione perfino
tra i più saggi) ai prossimi al ponte soldati
di guardia: se saranno tornati con lo scudo
avranno il premio che avrebbero avuto qualora
non fossero tornati a causa dei dioscuri col dente
avvelenato dai cui immortali cavalli si vocifera
che Zeus volesse farli calpestare (o da un kouros
achemenide e spia che li avesse vilmente fregati)
per carogna storica s’intende colui che, battuto
il paese casa per casa, e stalla per stalla, fingendo
di disprezzare quel che il padrone ha di più caro,
lo sottrae alla sua sfera di influenza, e non fugge,
però, dopo essere stato scoperto. E anzi reclama
indulgenza et comprensione nel nome di una virtù
sapientissima insegnata ai vicinissimi al ponte
soldati di sventura et affini da Omero (poeta sovrano)
che con la spada (sword) in mano ammolla le porte
più dure (hard); il resto è silenzio, oppure il berciare
di un orso gravido di vino e tormentato dal fuoco
di sant’Antonio: “io, quella lì, lo so benissimo,
che, col marito al fronte, sconvolgeva le regole
sociali, e lo urlo ogni sabato sera, da in fondo
alle scale, dove presto verrà gente a picchiarmi”

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