Uno monta la luna

après-coup

ti vedesse, anzi ti avesse visto,
non saresti scampata al suo giudizio
di commediante, di astuta inquilina.
Ammansita dalla ritrosia di un tango,
avrebbe scambiato il martire in agguato
per l’assassino. Avrebbe anche giurato
di esserne stata l’amante e di avergli
tagliato chissà quante volte i capelli.
Ne avrebbe chiesto in fine l’interdizione
dichiarando ingenua l’idea che la gente
si fa del guardare ma non toccare, del
procedere a tentoni, anziché a zig zag

per il centenario della radio

e non Flo Sandons, il putipù, la Nilla Pizzi? Rose
dubbiose che fanno male, ma che dal male possono
anche liberare (che viene a chili, che solo a grammi
va via), un incubo che vaga sul mondo per settimane
o millenni, una mistura di opzioni perfettamente congrue
a questa rete di atomi sfrigolanti, a questa caduta di carte
ingenue, di piume, di battimani frequenti, a una voglia
oscena e con tutti i sensi a posto, accarezzanti come
un’edera saturnina, o uno spot che ne raccoglie l’urgenza,
distinguendo bene assoluto da un bene a credito, l’essere
dal ribollire di un’arguzia malconcia, da un impeccabile
odore di santità. O alludendo al tardivo suffragio di una
vocazione allarmante, rubizza, puntuta e lugubre fino
a scoppiare, fino a fare del gelo un rimorso, un appiglio
intermittente (ch’è la importanza si è superare la
natura in volere dare spirito a una figura e farla parere
viva, e farla in piano).5 E non un riciclaggio di accoppiate,
piazzate o vincenti? Non una poltiglia di scadenti richiami
animali, di wande tettoni, di ubaldi lai, magari con fruscìo
di gelsi che sanno di mentire, che negano ai dettagli
la qualifica di vizio? Rose adulterine, rebus incrociati
che tendono, più che al silenzio, al carrozzone, al dolce
monogramma dello spareggio (e lunedì feci quello braccio
di quella figura di testa che alza… martedì e mercoledì feci
quel vechio e ’l braccio suo… adì quindici di marzo
cominciai quello braccio che tiene la coregia in testa,
che fu venerdì, e la sera cenai uno pesce d’uovo, cacio,
fichi e once undici di pane). E non il nomignolo dei
piedi gonfi, o della terra che si apre sotto i piedi, o del
mese con la erre che depone a sfavore dell’interruzione?

dell’insistere

per Giovanna S.

puntuale come un’aquila penitenziale ci guarda
il monitor degli allunaggi: c’è da temerne il canto,
il profilo irritato da una svolta prematura, da una
stagione bizzarra che si sposta e condensa come
una specie impudica di amnesia, di rimessa in moto
a freddo, quando si raggira una pestilenza e le mani
non se ne distolgono. È da qui che direi di ripartire,
dalle parole sgelate dell’interferire, da casi di ascesi
non dubbia, ma imprudente, sollecita a truccarsi
da vendetta, da equivoco avvolgente: lo sai che due
case vuol dire non averne neanche una, che agguato
è la sostanza della pena, la chiara d’uovo della sua
remissione, che il problema è discendere, svolgersi
dentro, tuffati, non ovattati, muscolosi quel tanto
che basta per vedersi maschio e donna affrescata,
buia, di corsa, smandibolata, lutto mai leso, mai
lasciato, prova di scomparsa e giorno del saperci
fare. Frequente come i condor di Pecos Bill
ci strappa la pelle il monitor delle irruzioni, degli
scotennamenti: ce n’è da fare a pezzi la legge del suo
corpo ricreativo, il fuoco di una proscrizione che si
allarma per maschera o persona interposta, quando
si aggira un’insistenza rivale, un arcaico modello
di rivalsa, e mani affusolate non se ne distolgono

dell’allenarsi per fare, tutta la vita

strapiombi, scorciatoie, nausea d’alta
montagna, le tue micidiali aspettative
di satrapo, di musicomane scalza (“torero
me spiziga” oppure “col ciondolo d’oro”),
altalene monocrome, a scaglie, a petto
nudo, conficcate nella terra che dicevi
di amare. Sospetti di piaghe latenti,
di radicali allusivi: uno scheletro,
per esempio, partecipe del rosicchiare,
del mettere a punto l’arpione in nome
della preda più inseguita. Eri nel loro,
più che nel tuo, desiderio, e nell’ira
del mondo, una preda malvista, un rinvio
allo sgomento. Chi poteva intuire scelse
subito l’oltraggio del decifrare, della
scadenza che ama conficcarsi nella ferace
rotondità del volo, nel bilico che torna
coi primi caldi. Chi è garza o spugna, ma
non delude a scopo di sarcasmo, di elegia,
a lui si fanno incontro altri fantasmi:
spellature, diranno, da sottoscala, o debiti
che durano lo spazio di un prurito, di una
cinquina truccata. Anche da questa gragnuola
di rimorsi allontanati o di benedizioni
discende il pretesto delle ruggini occulte,
la ribalta degli sfratti, dei nutrimenti
che sanno subito di arrivano i nostri

uscita senza strada ovvero come sbrinare una bandiera rossa

a Elio P.

Donner son amour c’est très precisement
et essentiellement donner comme tel rien
de ce qu’on a, car c’est en taut, justement,
qu’on ne l’a pas, qu’il s’agit de l’amour

Jacques Lacan, 7 maggio 1958
sbrinare per sbrinare perché non sbrinare
una bandiera rossa, un discorso furtivo
tra due baldorie o crisi di sudditanza,
malgrado la coscienza che anche i nostri
giorni finiranno male, come l’estate
di San Martino o i giorni della merla
che sconsigliano ipoteche: perché non
proseguire con l’innesto del paradigma
nell’evento, nel movimento che oscilla
tra l’equivoco e il sestante di una stesura,
tra un sospetto di procedimento, e l’incanto
della sua indennità. Bandiera rossa va bene
perché dice le cose come stanno, morbide,
confinarie, attese perché insapute, inferite
dallo scatto di chi ci avverte una volta sola:
non è già la risposta nel timbro macerato e
consonante del dipingere secondo natura,
del presagire, che chi lo nega possa ’l ver
sentire? E inibire per inibire perché non
tornare alla cruna indenne di una corda,
o di un cammello, perché non riattivare
l’abisso della premessa, del presentimento,
e dirlo soluzione con l’aria di durare. Io è
qui che mi metto, con il collo alla dolce
vita, contraffatto da un tango, da un credito
senza risonanze: bandiera rossa che non
sbudella, che non incanta. Ma spiovere per
spiovere perché non spiovere prima che
il foglio diventi barca e voglia dire mettere
avanti le mani, rimbalzo finale, lungimirante,
solcato dai rovesci della fortuna: bandiera
rossa va bene perché adagio non ha senso,
se l’equazione vendere/vestirsi d’angelo
procura uno sgombero, un’uscita senza strada

II

per cui si ammorbidisce lo sfaccendare,
il rantolo di una emulsione che rimbecca,
che a furia di guardarsi, tira ad assuefarsi,
a sfoltire la scelta inacidita dei propri
risvegli, delle fughe animalesche sui tornanti
della repulsione, delle implacabili mezzadrie
che ad ora ad ora si fanno più contorte, più
indolenzite, come i ramarri spietati di una
epifania che ha l’oro in bocca, di una litania
agevolata dal volo. Per cui si arrovella, uscita
senza strada, senza che un rimosso la perlustri
o pilucchi, fico dopo fico, ciliegia dopo ciliegia.
Perché uno stile ne tira un’altro e lo sottopone
a tortura, a un grumo di restauro che non può
dirsi né forma esile o esilarante dell’estro,
né sprezzatura, né enfiagione maligna. Per cui
si abbrevia l’umore di un male squilibrante,
delle tempeste azotate, dei bracci di ferro.
Io è anche qui che mi metto, con il bow-tie
della fine e, negli occhi, un rapido deserto
di camelie umane: qui dove un latte d’asina
disarma la parte dello schiavo e ne avvilisce
la candidatura. Ma uscita senza strada è
spargimento, se prurito vestale ne cancella
l’iniziativa, se la ripartisce in smania,
in matassa virile, prescrittiva, di apodosi
e pregi a doppio taglio. Gridavi: “Sangue di
bue, versato per la salvezza degli astanti,
per una più subdola e completa rifondazione
del mito”. Gridavi anche metro, metropoli
e colonia, ma con aggiornamenti. O ribadivi:​
“La milza, ti scoppiasse”, torcendo le mani
lealmente, per il timore. Va bene la coscienza,
quella cosa nera e pelosa, vanno anche bene
gli omaggi modesti ma imperscrutabili, ma
della morte per antonomasia, quella cui
non arride violenza, come discuterne oggi
che, cruda o per acqua, ossessiva inflessione
ripullula nel cuore iniziatico della ragione,
nel pulviscolo smarrito della sua leggenda

III

uscita senza strada va bene perché le somiglio
la rosa e lo giglio e cavalieri armati fino
ai denti. Ma uscire per uscire perché non
uscire senza rincorsa, inzuccherati, piallati,
rabberciati o digeriti da bandiera rossa

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